Passio Christi – Passio hominis: Il mistero del Sabato Santo.
“Che cosa è avvenuto? Oggi sulla terra c’è grande silenzio, grande silenzio e solitudine”, così comincia un’omelia per “il grande e Santo Sabato”, attribuita a Epifanio di Salamina (+535), che si legge nell’Ufficio delle letture del Sabato Santo. “Grande silenzio perché il Re dorme: la terra è rimasta sbigottita e tace perché il Dio – fatto carne – si è addormentato e ha svegliato coloro che da secoli dormivano. Dio è morto – nella carne – ed è sceso a scuotere il regno degli inferi. Dio si è addormentato per poco tempo ed ha svegliato gli uomini nel regno della morte.”
Dove potrebbe toccarci di più il cuore quest’omelia, se non davanti alla Sindone, a quest’immagine del riposo del Signore nel sepolcro? È come se fosse Lui stesso a dirci: “Guarda sul mio dorso la flagellazione subita per liberare le tue spalle dal peso dei tuoi peccati. Guarda le mie mani inchiodate al legno per te, che un tempo avevi malamente allungato la tua mano all’albero. Morii sulla croce e la lancia penetrò nel mio costato, per te.” Quest’omelia parla di un contenuto di fede che confessiamo nella breve frase del Credo: ”…discese agli inferi (“discendit ad inferos”). Per la redenzione
dell’uomo era necessario anche che Gesù Cristo “assaggiasse” la morte, che sperimentasse davvero lo stato di morte, come vediamo in maniera così sconvolgente nella Sindone. “È il mistero del Sabato Santo in cui Cristo deposto nel sepolcro manifesta il grande riposo sabbatico di Dio, dopo il compimento della salvezza degli uomini che mette in pace l’universo intero”, così si esprime il Catechismo della Chiesa Cattolica.
Non risulta facile oggi comprendere questo articolo di fede. La verità di fede vi è formulata in concetti provenienti da un immaginario che oggi ci è estraneo. L’idea di un “regno della morte” di un “mondo inferiore” al di sotto del mondo in cui viviamo, di un “inferno” che contiene le anime dei morti, sembra totalmente lontana dalla nostra moderna coscienza razionale. Questo enunciato di fede invita “alla ‘demitizzazione’ che qui sembra poter essere tradotta in atto senza alcun pericolo e senza scandali”, come scrisse il nostro Santo Padre nella sua Introduzione al cristianesimo.3
Non sarebbe quindi meglio rinunciarci? La Chiesa tuttavia, dai tempi più antichi ha tenuto ferma questa confessione. Non dovrebbe essere questo, per noi, uno stimolo a sforzarci di capire, proprio quando la questione appare difficile ed oscura? Proprio in considerazione degli eventi del ventesimo secolo, occuparsi del Sabato Santo, del giorno in cui Dio tace, sembra oggi più attuale che mai.
Se si considera l’articolo di fede della discesa di Gesù nel regno della morte in particolare, appare del tutto chiaro che “regno della morte”, “mondo inferiore” ed “inferno” non indicano il luogo di eterna condanna, bensì la dimora dei morti, chiamata in ebreo lo Sheol, in greco l’Ade (At 2,31). È il luogo dove le anime dei defunti si trovano imprigioniate dopo la morte.
Nel Nuovo Testamento si trovano numerosi passi a cui poter ricondurre questo enunciato di fede. Già la predica di Pentecoste di Pietro ne contiene un accenno, quando cita come annuncio della resurrezione un passo del Salmo 16: “Non fu abbandonato agli inferi (Ade), né il suo corpo subì la corruzione” (At 2, 31; cf. Sal 16, 10). Nella lettera ai Romani di Paolo troviamo, nello stesso senso: ”Chi discenderà nell’abisso? Questo significa far risalire Cristo dai morti” (Rm 10,7). Qui si stabiliscono due cose: in primo luogo, che alla morte di Gesù sulla croce è inseparabilmente congiunto anche lo stato di morte, dunque la discesa nel regno dei morti. Ed inoltre, che la discesa ai morti è collegata con l’ascesa al Padre, con l’inizio quindi della pienezza escatologica: “Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose” (Ef 4, 10).
Le testimonianze bibliche confermano la discesa di Cristo ai morti come vera esperienza di morte, come l’espressione di più profonda solidarietà con gli uomini. Durante quei tre giorni, dalla sua morte fino alla resurrezione, “Gesù ha sperimentato ‘lo stato di morte’, cioè la separazione dell’anima dal corpo, nello stato e condizione di tutti gli uomini”4. Gesù stesso lo aveva preannunciato, paragonando il proprio cammino con la storia del profeta Giona: “Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra” (Mt 12, 40).
Già i primi Padri della Chiesa vedevano in un difficile e oscuro passo della prima lettera di Pietro la prima testimonianza per la discesa agli inferi: “E in spirito andò ad annunziare la salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione” (1 Pt 3, 19). Per una comprensione corretta di questo passo è necessario considerare il contesto. Immediatamente prima di questo versetto si dice: “Anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nella carne, ma reso vivo nello spirito” (1 Pt 3. 18). Qui si parla di una dualità: il corpo è morto, l’anima invece resta in vita, nella visione di Dio. In questo stato Cristo è “andato dagli spiriti”, il che qui significa che la sua potenza si è estesa su tutti, anche su coloro che erano già morti prima di lui. Egli va a tutti, anche ai morti, anche agli spiriti nel mondo degli inferi. Cristo nella morte prende su di sé l’intero destino dell’uomo, arrivando fino alla separazione tra corpo ed anima. Quanto al corpo egli è morto, ma la sua anima discende agli inferi, pur restando sempre nella visione beatifica di Dio. È in virtù di questa visione che egli può sovranamente comparire davanti agli spiriti prigionieri e predicare anche a loro.
Teresia Benedita a Cruce – Edith Stein –, la filosofa e carmelitana uccisa ad Auschwitz, ha descritto questa scena a modo di visione, in un piccolo pezzo teatrale dal titolo “Dialogo notturno”. Lo scrisse nel giugno del 1941 per l’onomastico della sua priora, Madre Antonia a Spiritu Sancto, nel convento olandese di Echt. La regina Esther va vagando per il mondo “ad implorare rifugio per un popolo che è senza patria, scacciato e calpestato sempre” (Edith Stein, ebrea fuggita dalla persecuzione in Germania nel Carmelo di Echt, parla qui per esperienza personale). La regina Esther compare dunque alla priora e le racconta come, insieme ad altri giusti dell’Antica Alleanza, abbia sperimentato il “descensus ad inferos” di Cristo.
” E in spirito andò ad annunziare la salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione( 1Pt 3, 19).
“Dimoravamo in pace,
ma lungi dalla luce:
sempre, perciò nostalgici di luce…
Ma arrivò un giorno in cui si squarciò il cosmo e gli elementi tutti
da un fremito ribelle furon scossi. La notte avvolse il mondo in pieno giorno, ma in questa notte apparve, in un sol lampo, un monte spoglio
e sul monte una croce, e sulla croce
era confitto Uno
che sanguinava dalle mille piaghe.
E noi fummo assaliti dalla sete
di abbeverarci tutti di salvezza
alla sorgente, che da quelle piaghe sgorgava…
In quella notte scomparve la croce,
ma all’improvviso una novella luce
si accese in quella tenebra:
luce giammai sognata,
dolce, beatificante,
usciva dalle piaghe di quell’Uomo
appena morto là, su quella croce.
E in un momento
Egli fu in mezzo a noi…
Lui stesso era la luce,
l’eterna Luce, da lontani tempi
attesa: lo splendore era del Padre,
la salvezza dei popoli!
Le braccia aperse e ci parlò con voce divinamente melodiosa:
Venite a me voi tutti
che fedeli servito avete il Padre e il Salvatore sperando viveste. Egli è con voi – guardate! – per portarvi con sé lassù nel Regno del Padre suo.
Quello che avvenne poi,
nessuna lingua lo potrà mai dire: la beata speranza era finita per tutti noi che l’avevamo attesa: nel Cuore di Gesù fummo alla meta.”
Questi erano i versi di Edith Stein.
Questo mistero di fede, che nelle testimonianze della Sacra Scrittura è quasi solo accennato, viene sviluppato più pienamente nella teologia e nella devozione dei Padri. Lo si vede specialmente nelle icone pasquali della Chiesa d’Oriente. Accanto alla raffigurazione delle donne al sepolcro vuoto, si fa strada ben presto un’altra icona che raffigura il mistero di fede della nostra redenzione dal peccato e dalla morte. Il motivo centrale di questa rappresentazione è la discesa di Cristo ad Adamo nel mondo degli inferi. Nelle più antiche e più chiare rappresentazioni si vedono al centro tre personaggi: Adamo, Cristo e una figura maschile nuda, che giace a terra. Cristo, circondato da una mandorla di luce sta come trionfatore con un piede sul capo dell’uomo, che simbolizza l’Ade, e che trattiene ancora Adamo per la gamba. Le porte degli inferi sono distrutte e giacciono incrociate. Il Redentore afferra con la destra la mano di Adamo, che ha già un piede fuori dal regno dei morti. Accanto ad Adamo compaiono a volte anche Eva o altri giusti dall’Antico Testamento. L’immagine porta il titolo di “Anastasis”, resurrezione. A differenza della Chiesa occidentale, che per lo più
associa al tema della “Resurrezione” l’immagine del Cristo che si erge sulla propria tomba, la Chiesa orientale ci mette davanti agli occhi l’intima relazione esistente fra la Passione e la Resurrezione di Cristo e la redenzione dell’uomo: attraverso la Passione del Redentore termina la passione dell’uomo. Nella sua discesa ai morti, egli scuote l’uomo caduto alla luce della vita, come ricorda l’omelia citata all’inizio di Epifanio di Salamina: «Svegliati, tu che dormi, e risorgi dai morti, e Cristo ti illuminerà! Infatti non ti ho creato perché rimanessi prigioniero nell’inferno. Risorgi dai morti. Io sono la vita dei morti. Risorgi, opera delle mie mani! Risorgi mia effige, fatta a mia immagine! Risorgi, usciamo di qui! Tu in me e io in te siamo infatti un’unica e indivisa natura. Per te io, tuo Dio, mi sono fatto tuo figlio. Per te io, il Signore, ho rivestito la tua natura di servo. Per te, io che sto al di sopra dei cieli, sono venuto sulla terra e al di sotto della terra.(…) Il mio sonno ti trarrà fuori dal sonno del regno dei morti.”
Il silenzio del Sabato Santo, di cui la Sindone ci parla in maniera così imponente, è l’atteggiamento di attesa di tutta la terra. Esso ricorda il silenzio che precede la creazione del mondo (Gen 1,2), quando tutto attende che Dio agisca con potenza. Ed è così anche qui. Cristo è venuto nel mondo e la sua opera terrena, la vita fra gli uomini e la morte per il peccato, è compiuta. Egli si è inserito nella genealogia del genere umano peccatore, per redimere tutti, fino ad Adamo, il progenitore di tutti gli uomini. Ora, il Sabato Santo, nella morte, fattosi solidale anche con i morti, egli va come in trionfo nel mondo degli inferi, per chiamare fuori tutti coloro che la morte tiene ancora prigionieri: Adamo, dove sei? Cristo chiama ora alla resurrezione anche i morti, con i quali si è mostrato solidale. Quelli con cui voleva essere nella morte, li ha anche scelti per sé, perché vivessero con lui e formassero con lui la comunità celeste. La morte non riesce a trattenere il Figlio di Dio morto. Il suo ingresso nel mondo degli inferi diventa il suo percorso trionfale. Naturalmente, come insegna qui Tommaso d’Aquino, la redenzione giunge “solo” fino al limbus patrum, al luogo dove dimorano i giusti; l’inferno più profondo viene sì a conoscenza della
vittoria di Cristo, ma non vi prende parte. Dio rispetta qui la libertà dell’uomo fino alla fine.
Ai tempi nostri, soprattutto Hans Urs von Balthasar si è occupato della questione del descensus ad inferos. In questo egli era particolarmente influenzato delle visioni di Adrienne von Speyr che raggiungevano un culmine soprattutto nel Triduo pasquale. Il compito essenziale che Balthasar si propose era di “interrogare le fonti bibliche per chiarire in che misura l’espressione ‘descendit ad inferna’ può essere considerata un’interpretazione valida delle affermazioni bibliche”.
Fa parte dell’evento di redenzione che Cristo abbia veramente condiviso con noi, in tutto e per tutto, il destino umano, diventando così solidale con ogni uomo. Egli è uomo fino nella morte e come uomo è stato morto. Per Balthasar al centro della morte c’è l’esperienza che Gesù fa dell’abbandono da parte di Dio – “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Sal 22, 2) -, così egli “deve
sperimentare insieme con i peccatori scesi nel mondo degli inferi, in solidarietà con essi, la loro separazione da Dio – in ultima analisi destituita di speranza”.
Solo allora Gesù ha anche veramente patito la morte umana.
Questa riflessione sull’abbandono di Dio e sull’esperienza degli inferi come estrema impotenza del morire e dell’esser morto, induce Balthasar a perplessità nei confronti dell’antica teologia del “Descensus ad inferos”: la considera addirittura un errato trionfalismo. Non fu la potenza del Cristo vittorioso, secondo Balthasar, a vincere la potenza della morte, bensì l’impotenza dell’amante che sprofonda sempre più nell’incontro con Adamo e con l’”inferno”.
Balthasar nella sua teologia mette effettivamente in evidenza un aspetto che nei Padri fu poco sviluppato. Il Sabato Santo, la morte di Cristo non reca in sé, in un primo momento, nessun trionfalismo. Uno sguardo alla Sindone ce lo conferma, lo sperimentiamo nella liturgia del Sabato Santo che è estremamente semplice, senza alcuna celebrazione eucaristica: tutto si concentra nella preghiera silenziosa e sulla liturgia delle ore, soprattutto sulle letture dell’Ufficio delle tenebre. La chiesa è spoglia di ogni ornamento, gli altari sono scoperti. La morte di Cristo lascia in un primo momento i suoi discepoli e la Chiesa tutta nello sgomento, nell’afflizione e nel timore. Il credente è invitato al silenzio, al raccoglimento e all’adorazione. La salvezza che si realizza nella discesa agli inferi nel Sabato Santo è ancora nascosta, la morte ha ancora il suo potere, che poi le verrà tolto.
Questa visione sostenuta da Balthashar sottolinea una parte del mistero, l’abbassamento di Gesù Cristo, la sua solidarietà con noi fino alla prova della più profonda amarezza della morte. Ma anche l’altro aspetto è importante: la gloria. Gesù Cristo è morto veramente, ma in questa morte egli è già il Beato che chiama alla beata comunione tutti i giusti che sono morti con lui. Dio si reca nell’abbassamento per strappare gli uomini alla morte e condurli in alto. “Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anche Cristo ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita”, leggiamo nella lettera agli Ebrei (2, 14- 15). Il suo abbassamento diventa il nostro innalzamento, la sua schiavitù la nostra libertà, la sua umanizzazione fino alla morte la nostra divinizzazione.
Fra tutti i misteri della vita di Gesù il descensus ad inferos è il più enigmatico. In che cosa consiste l’efficacia salvifica di questo momento nella vita di Gesù? Certamente nel fatto che Cristo nella sua morte incontra ogni uomo. Questa è più che solidarietà, questa è l’immediato trasporto del Dio misericordioso verso i morti.
“Disceso agli inferi”, scrisse l’allora Cardinale Joseph Ratzinger nelle sue Meditazioni sulla Settimana Santa11, “questa confessione del Sabato Santo significa che Cristo ha varcato la porta della solitudine, che è disceso nel fondo insuperabile, irraggiungibile del nostro essere abbandonati. Significa che anche nell’ultima notte nella quale nessuna parola penetra, nella quale noi tutti siamo come bambini che piangono, abbandonati, c’è una voce che ci chiama, c’è una mano che ci prende e che ci guida. La solitudine insuperabile dell’uomo è superata da quando Lui vi è entrato. L’inferno è vinto, da quando l’amore è entrato anche nella regione della morte e la terra di nessuno della solitudine viene abitata da lui. L’uomo vive in fondo non di pane, ma essenzialmente, in quanto uomo, dall’essere amato e dal potere, egli stesso, amare. Da quando c’è la presenza dell’amore nel luogo della morte, c’è la vita in mezzo alla morte.”
(Cardinale Christoph Schönborn Arcivescovo di Vienna: dalla meditazione nel Duomo di Torino lunedì 12 aprile 2010).