auschiwitz_auschwitz_12Senza scarpe, senza vestiti, senza volto, perfino senza nome. Spogliati di tutto. Solo un mucchio di ossa e un numero. Impresso a vita sul braccio, e dentro al cuore. Quello che niente e nessuno è mai riuscito, però, a strappar via è il ricordo. «Nulla se non le parole» rimangono, allora, a ricordarci, scrive Primo Levi, che siamo uomini e abbiamo il dovere della memoria. «Mi hanno portato via i genitori, l’identità, il fratello e la sorella e i miei averi. C’è qualcosa che vogliono da me. Allora ho pensato alla mia anima. E ho detto: non riusciranno a portarmela via, la mia anima» afferma Irene Zisblatt, ungherese, uscita viva dall’inferno di Auschwitz.

I sopravvissuti portano dentro di sé le immagini, i suoni, persino gli odori dell’orrore. Quando si scende all’inferno, la sofferenza penetra fin nelle viscere. Impossibile staccarsela di dosso. In tanti hanno deciso di tacere. Per anni, per decenni. Perché ricordare significava rivivere quei momenti. Perché la sofferenza ogni volta era più forte e insopportabile. Perché, come ha scritto Elie Wiesel, sopravvissuto all’Olocausto, il silenzio è una sorta di passaggio obbligato: «Per esprimere la sofferenza, anche delle parole, è assolutamente necessario rimanere in silenzio e scoprire quel silenzio necessario che c’è in esse. Si può usare il silenzio nella scrittura e si ha il diritto di farlo, ma non si ha il diritto a rimanere in silenzio quando c’è qualcun altro che ha bisogno della nostra parola».

Elie c’era. Helga e Irene c’erano. Anna Frank c’era. Primo Levi c’era. E c’erano anche Enrico, Palma, Gaetano e Giuseppe. Sono gli ultimi testimoni italiani, ancora in vita, di quella tragedia. Il ricordo (nella più stretta etimologia di «ri-portare al cuore») dei fatti, narrati attraverso i loro occhi e le loro parole, è un bene prezioso che va cercato, raccolto, restituito in particolare alle giovani generazioni. «Il peggior male – scrive Hannah Arendt nel suo La banalità del male – non è il male radicale, ma è il male senza radici. E proprio perché non ha radici, questo male non conosce limiti». Parole che potrebbero essere in tutto simili a quelle di chi ha vissuto le crudeltà della guerra in Kosovo o in Afghanistan, la crudeltà di qualsiasi guerra, in qualsiasi parte del mondo. Ieri come oggi. E che, per questo, abbiamo l’obbligo di non disperdere.

Enrico, l’ultimo Sonderkommando

«Per sessant’anni non ho raccontato nulla. Neanche ai miei figli. Ho detto qualcosa a mia moglie solo prima della sua morte». Enrico Vanzini, nato a Fagnano (VA), ha 91 anni. Nella sua casa, vicina al bosco e al ruscello, non c’è nulla fuori posto: la cucina economica, la credenza con sopra le medicine, un televisore e una tastiera. «Sono finito sotto le armi a 18 anni; ma il periodo peggiore sono stati gli ultimi sette mesi. Li ho trascorsi a Dachau. Pesavo 86,3 kg prima di entrare. Sono uscito che ero un mucchietto di ossa: 29,4 kg. Quando tornai, mia mamma mi chiese chi fossi. Sono rimasto un anno in ospedale. Per pagarmi le cure i miei genitori furono costretti a vendere tutto ciò che avevano». Enrico arriva a Dachau nell’agosto 1944. «Mi mandavano tutti i giorni a riparare binari in stazione o a riem¬pire le voragini provocate dalle bombe. Una mattina la mia vita cambiò. Mi scortarono fino a un edificio oltre le caserme delle SS. Non sapevo cosa ci fosse all’interno. Lo capii appena varcata la soglia. Due forni accesi e l’odore della morte. I nazisti mi assegnarono al Sonderkommando, unità speciale di internati costretti a cremare i prigionieri morti. Non lo sapevo. Mi trovai a caricare i cadaveri e a farli scivolare nei forni». Pochi i Sonderkommando sopravvissuti. All’inizio ricevevano un trattamento di favore. Per essere, poco dopo, giustiziati. Avevano visto. C’era il rischio che potessero parlare. Enrico si salva solo perché la guerra sta per finire e i tedeschi hanno fretta di mettersi al sicuro. Vanzini è l’ultimo italiano, di quelle unità speciali, ancora in vita. «In due settimane avrò bruciato almeno un migliaio di morti. L’odore era terribile, mi par di sentirlo ancora oggi. Così come quel suono, il rumore dei nervi umani che scricchiolavano tra le fiamme».

Un giorno Enrico viene portato oltre un’altra porta poco più in là rispetto ai forni. Mai avrebbe immaginato che là potesse esserci un orrore ancora più grande di quello degli stessi forni: «Li ho visti. Io li ho visti i morti soffocati col gas. Mi ordinarono di staccarli. Ma erano troppo stretti, avvinghiati gli uni agli altri. E poi, ancora oggi, qualcuno osa dire che le camere a gas non sono esistite». Sul tavolo Vanzini tiene in evidenza tre pagine fitte di date, incontri, soprattutto nelle scuole dove sta portando, ininterrottamente, la sua testimonianza. «Sono stato zitto per sessant’anni, ora è giusto che parli con tutta la voce e le parole che mi rimarranno». A bordo della sua auto rossa percorre chilometri e chilometri. Sembra non essere mai stanco. «Suonavo la fisarmonica, un tempo. Oggi, però, le mie mani sono deformate a causa del freddo e delle bastonate. Riesco a vestirmi e a suonare, come posso, questa vecchia tastiera. La musica fa volar via, per un attimo, i ricordi, e mi basta».

di Nicoletta Masetto