ETTY HILLESUM di fra Fabio Scarsato
Le memorie di Etty Hillesum, nata il 15 gennaio 1914 a Middelburg, in Olanda, e morta ad Auschwitz, il 30 novembre 1943. A undici quaderni, e a un gruzzolo di lettere, ha affidato le sue parole contro l’orrore.
Può una semplice parola affidata a inchiostro e carta infrangere il silenzio? Una pagina scritta è in grado di attraversare indenne non dico i secoli, ma almeno l’odio di oggi, per farsi accusa e memoria indelebile? È sensato scrivere nei tempi del genocidio, quando, secondo alcuni, ad Auschwitz il linguaggio avrebbe perso tre sue dimensioni costitutive: adeguatezza, significanza e, appunto, credibilità? È famosa l’affermazione sconsolata ma perentoria di Adorno: «Dopo Auschwitz, nessuna poesia, nessuna forma d’arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile». Inutile aggiungere che anche il «parlare di Dio» ne è uscito un po’ malconcio e tutt’ora in grande difficoltà…
Questa è stata invece la speranza che ha animato e sorretto Etty Hillesum, una delle tante vittime della Shoah, giovane donna olandese che, come estrema forma di resistenza, affidò a undici quaderni, dall’8 marzo 1941 al 13 ottobre 1942, più un bel gruzzolo di lettere, le sue parole contro ciò che di pazzesco stava succedendo attorno a lei.
Secondo la Misnah e il Talmud, al tempo della creazione, ci fu un’estrema scheggia di tempo tra i sei giorni che dettero origine al mondo e l’inizio del riposo del primo sabato. In quel breve lasso di tempo, Dio creò ulteriori dieci cose, tra cui le lettere della scrittura. Colpisce allora la «vocazione alla scrittura» a cui Etty si sentì chiamata: una vocazione davvero «divina», «ispirata», la sua «grafomania», l’ansia, espressa più volte nel suo Diario, di trovare la parola «giusta», quella e solo quella che davvero potesse contenere il sentimento provato, l’esperienza che si sta vivendo, con verità e chiarezza. Una parola «buona», però, per non aumentare il saldo finale di odio. Ma di cercarla comunque e sempre, come se fosse un autentico imperativo morale o quella «franchezza di linguaggio» che l’apostolo Paolo avrebbe chiamata «parresia» (At 28,31).
E questo colpisce tanto più che il nazismo stava piuttosto «violentando» il linguaggio, con termini insospettabili pur di dire e non dire cosa stava realmente succedendo: «sfoltimento» (Auflockerung), «soluzione finale» (Endlösung), «evacuazione» (Aussiedlung), «trattamento speciale» (Sonderbehandlung) e via dicendo. Del resto, sarcasticamente Buchenwald alla lettera significa «bosco di faggi», Birkenau «campo delle betulle»… Mentre, forse, il resto dell’Occidente da par suo faceva finta di non vedere, e quindi non ne parlava neppure. Non è già questa la prima forma di resistenza, il modo con cui «esserci» comincia a concretizzarsi? Dire «sì sì, no no» (Mt 5,37)? Racconta Hannah Arendt, nel famoso libro La banalità del male, che al processo Eichmann a Gerusalemme, un testimone asserì che al tempo della «soluzione finale» la cosa peggiore che potesse accadere a un essere umano era restare «innocente», e cioè non prendere in qualche modo posizione.
Eppure Etty, «nell’anno del Signore 1942, l’ennesimo anno di guerra» (Diario, 20 giugno 1942), riuscì a restare allo stesso tempo «innocente» e «presente», e forse a esserlo molto più di tanti. Qualcuno avrebbe potuto dire di lei che possedeva «la competenza dell’essere»: esserci in pienezza, non rassegnati né arresi, presenziare alla vita esteriore, perché contemporaneamente si è nella propria vita interiore. Esserci, decidendo in qualche modo persino di non sottrarsi all’eventualità di andare in campo di concentramento, o per lo meno di non fare nulla per evitarlo.
Perché ci vorrà ben qualcuno disposto alla fine a esserci, con le proprie mani per pregare e con i propri occhi scuri per vedere e raccontare (Diario, 11 luglio 1942). Con la propria penna e un foglio bianco da sporcare di parole, per intanto. Parole come filo spinato per «contenere» il male, ma anche come calda coperta perché… faccia meno male: «Dammi un piccolo verso al giorno, mio Dio, e se non potrò sempre scriverlo perché non ci sarà più carta e perché mancherà la luce, allora lo dirò piano, alla sera, al tuo gran cielo. Ma dammi un piccolo verso di tanto in tanto» (Diario, 24 settembre 1942).